Si è appena conclusa, a Urbino, la settima edizione delle «Giornate della traduzione letteraria» (25-27 settembre).
All’interno della manifestazione è stato assegnato il «Premio per la traduzione – Centro Europeo per l’Editoria – Ecstra»; la giuria ha conferito l’onorificenza allo scrittore francese Daniel Pennac, motivando la scelta come segue: «per l’inesausta disponibilità con cui affianca i suoi traduttori nelle varie fasi dell’interpretazione e della resa linguistica; per la generosa attenzione mostrata nei confronti delle loro condizioni di lavoro; e per l’ideale testimonianza sul valore della traduzione di cui è portatore nel mondo della cultura”.
Nel ricevere il premio, lo scrittore francese ha voluto celebrare i traduttori dei suoi libri con un discorso, un ampio stralcio del quale è stato pubblicato sul «Manifesto» del 25 settembre. «Grazie a voi», dice Pennac, «i miei libri rinascono e attraversano le frontiere. Dico rinascono, poiché la traduzione di un testo letterario equivale a una nuova nascita. E il ruolo che svolgono i traduttori in questa nascita può essere considerato alla stregua di una creazione. La nozione di traduzione è inseparabile da quella di creazione». E ancora, interrogandosi sugli ingredienti – la «misteriosa formula» – di una buona traduzione, Pennac individua «la capacità di trasporre in un’altra lingua il lessico classico o popolare dell’autore straniero, il ritmo della sua scrittura, la sua musicalità, i suoi sottintesi, le sue allusioni, le svariate intenzioni dell’autore, in sostanza ciò che non è scritto e che potremmo chiamare lo spirito del testo, capacità che fa del buon traduttore una sorta di psicanalista dell’autore. … Questa capacità … può nascere solo da una fusione con il testo e con la lingua di partenza, unita a una perfetta padronanza della lingua d’arrivo … Tale duplice competenza presuppone un’ubiquità linguistica e letteraria … un intuito analogico [che] impone al traduttore di calarsi in una dimensione … la quale … è la stessa del romanziere al lavoro.»
Con molto garbo, lo scrittore ha affrontato lo spinoso problema della retribuzione del lavoro di traduzione augurandosi che, visto l’accostamento delle abilità del traduttore a quelle dello psicanalista, vi possa essere un avvicinamento, tra le due figure, anche in termini di parcelle…
A Pennac sono davvero grata per le parole bellissime che ha dedicato ai traduttori e al loro quotidiano impegno per una cultura senza frontiere. A urtarmi oltremisura sono state invece, sul «Manifesto», le parole comparse sotto al titolo del discorso dello scrittore: «L’omaggio commosso di Daniel Pennac all’ingrato lavoro dei traduttori». Ingrato lavoro!? Ma come si permettono? Un lavoro «ingrato» è un lavoro sgradito, spiacevole. È lavoro ingrato pulire una latrina, non fare una traduzione. A prescindere dalla retribuzione. Se pulire una latrina fosse pagato a peso d’oro, resterebbe (per la maggior parte di noi, io credo) un lavoro ingrato; il mestiere del tradurre, invece, sebbene mal retribuito, è evidentemente gratificante per molti altri versi. Altrimenti non si spiegherebbe il proliferare di scuole e corsi di traduzione, e non si spiegherebbero nemmeno eventi come le Giornate di Urbino.
Che nessuno dica, per favore, che tradurre è un mestiere ingrato. Noi traduttori facciamo rinascere libri, discorsi, messaggi, diamo loro nuova vita e li portiamo al di là delle frontiere. Mestiere gratissimo, il nostro. Nonostante tutto.
Lo stralcio del discorso di Daniel Pennac è stato pubblicato sul «Manifesto» del 25 settembre 2009 nella traduzione di Yasmina Melaouah. Può essere letto anche qui.
Lecco, 28 settembre 2009