Dicono di noi

Cesare Segre, Se l’umanesimo italiano fosse suddito dell’inglese, dal Corriere della Sera del 22 marzo 2012 

Chi traduce, si pensa comunemente, sostituisce a parole di una lingua parole di un’altra; esercizio che un giorno potrebbe essere demandato a «macchine per tradurre». Però si è subito constatato che le cose non stanno così, e anzi la traduzione è una delle attività mentali più ardue ed esigenti. S’è persino introdotto il termine «traduttologia», di cui non mi prendo la responsabilità. In sostanza, non si traduce da parola a parola, ma da unità discorsive a unità discorsive: diciamo da frase a frase. E, guardando ancora più dall’alto, si traduce da una cultura a un’altra cultura. Ogni lingua porta in sé le tracce della sua storia, della sua sensibilità giuridica, del pensiero filosofico e religioso. Passare da una lingua a un’altra significa mettere puntualmente a confronto il modo di esprimersi di due culture, e il traduttore dev’essere in grado di farlo.

John Berger, intervistato da Sebastiano Triulzi per Repubblica del 9 gennaio 2012, p. 53

Che cosa l’ha spinta a tradurre Murale, il poema di Mahmud Darwish?

La mia identificazione con la lotta palestinese. […] Il mio problema era riprodurre il respiro. Non basta prendere una parola e spostarla dall’altra parte. Bisogna andare a vedere dietro la parola, e dietro c’è qualcosa di preverbale che appartiene al corpo intero di una cultura. Quando lo si trasporta nella lingua d’arrivo bisogna cercare un equivalente. Tradurre significa passare attraverso, in profondità.

Adam Thorpe Fotografia © di R. Freiburg
Adam Thorpe parla di traduzione in un articolo su «The Guardian»

Adam Thorpe’s Top Ten English Translations, «The Guardian», 19 ottobre 2011

« …  A literal, academic version may reproduce the meaning, but everything else is likely to be missing: nuance, humour, music, tone, colouring … exactly what made the work worth translating in the first place. On the other hand, a free translation may betray the author’s intentions, however subtly.
[…]
In the end, accuracy – in all its forms – must be the gold standard. There again, smuggling a text over the linguistic border involves a lot of cunning as well as compromise. No two languages have the same grammar, for a start, let alone the same music. You have to accept inevitable loss. If the hippo is the sperm whale’s closest relative, then that’s as close a resemblance as even the finest translation can hope to achieve … but it is, at least, its own creature.»

(http://www.guardian.co.uk/books/2011/oct/19/adam-thorpe-top-10-english-translations?CMP=twt_fd)

Umberto Eco, in un’intervista rilasciata a Maurizio Bono per «Repubblica» (5 settembre 2011) Così ho corretto il Nome della rosa

« … E poi c’è una faccenda. I miei romanzi successivi riportano correzioni ad ogni ristampa. È perché iniziavano le traduzioni appena il libro era uscito in italiano. Ora non c’è lettore più severo e pignolo di un traduttore, che deve soppesare parola per parola. E i vari traduttori si accorgono che là c’è una contraddizione, che qui hai scritto nord invece di sud, che una frase si presta a una duplice interpretazione perché magari manca una virgola, e così via.
Quando questi rilievi ti arrivano quasi tutti insieme, tu alla prima o seconda ristampa italiana fai le dovute correzioni.
Col Nome della Rosa invece le traduzioni sono arrivate lentamente, a distanza di anni l’una dall’altra, mentre le ristampe italiane si succedevano a gran velocità. Inoltre c’è il problema delle ripetizioni, che danno sempre noia all’autore quando si rilegge; oggi basta schiacciare un tasto sul computer e si sa quante volte uno stesso aggettivo è stato ripetuto in un testo di cinquecento e più pagine, mentre ai tempi del Nome della rosa si batteva ancora a macchina, e quindi solo molto più tardi ho avuto a disposizione un testo digitalizzato sul quale fare controlli del genere».

 

Nadia Fusini, Com’è bello scoprire una nuova Dickinson, la Repubblica, 28/06/2011, pag. 58

«In una lettera è proprio Adrienne Rich […] a definire la traduzione “fardello d’amore”: l’immagine non è affatto banale, perché non v’è dubbio che come un somaro il traduttore si carichi di un peso, di un fardello, quando per libera scelta si mette a tradurre. Il traduttore sempre sta come un asino in mezzo ai suoni, stordito e incantato, a testimoniare la particolarissima perversione di qualcuno a cui non basta capire per godere … Per altruismo, per sfida della propria capacità poetica, forse, vuole di più: vuole far nascere in italiano una poesia che l’italiano non ha partorito…»

 

Ugo Foscolo, a proposito della sua traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne

«Ho ritradotta la traduzione del Viaggio Sentimentale, perch’era troppo fedele, e sentiva l’inglesismo nella lingua, e lo stento nello stile»

«… dopo anni parecchi m’accorsi che quella mia versione era scritta in certo gergo anglo-tosco, e che il mondo l’avrebbe meritamente disprezzata. … la ritradussi

«Faccio ora stampare a Pisa il Viaggio Sentimentale ch’io aveva già tradotto per me; ma ora dovendolo tradurre per gli altri, l’ho ritradotto, e mille volte rifatto, e lambiccato e corretto e ricorretto…»

                                                                                  Dall’Epistolario

 

Fabio Luisi, direttore dei Wiener Symphoniker  

«Lo spartito è importantissimo, ma il nostro compito di musicisti è di andare oltre e vedere cosa c’è dietro, quali sono le intenzioni che hanno portato il compositore a scrivere quel dato segno. A questo fine occorre conoscere bene il suo stile, per comprendere anche cosa ha sottinteso e non scritto, e cosa ha dovuto scrivere perché necessario.  …  Credo fermamente che non tutto sia scritto.  … io non mi considero un interprete … Io mi definirei un traduttore o, meglio, un avvocato dell’autore. È mio compito cercare di capire quello che il compositore voleva dire ‘in toto’ e non soltanto con la penna.»

Tratto dall’intervista ‘Italian Metropolitan’, raccolta da Riccardo Lenzi per L’Espresso (26 agosto 2010).

 

 Martin Lutero, Lettera del tradurre (1530):

«So io […], che tipo di conoscenze, quale studio, quale perspicacia e intelligenza debba avere un traduttore bravo.» 

«[C]i è capitato di cercare e ricercare un’unica parola due, tre, quattro settimane, talvolta senza trovarla proprio. […] talvolta non siamo riusciti a concludere nemmeno tre righe in quattro giorni. […] ora che il testo è reso definitivamente in tedesco, ciascuno può leggerlo e far da maestro; può scorrere con gli occhi tre o quattro pagine senza incespicare una sola volta, e non si rende affatto conto  dei macigni e dei ceppi che erano sparsi là dove ora si passa come su un’asse piallata.  Noi, invece, abbiamo dovuto  sudare e angustiarci per rimuoverli dal cammino, questi macigni e questi ceppi, sì che avanzare diventasse agevole. È uno scherzo arare dopo che il campo è stato ripulito, ma disboscare, sradicare, preparare il campo: a queste cose nessuno vuol metter mano. » 

I passi citati sono nella traduzione di E. Bonfatti (Marsilio, Venezia 2006)

 

Giovanni Pascoli, ‘La mia scuola di grammatica’ in Pensieri e discorsi MDCCCXCV-MCMVI, Nicola Zanichelli Editore, Bologna MCMXIV

«Ma che è tradurre? Così domandava poco fa il più geniale dei filologi tedeschi; e rispondeva: ‘Il di fuori deve divenir nuovo; il di dentro restar com’è. Ogni buona traduzione è mutamento di veste. A dir più preciso, resta l’anima, muta il corpo; la vera traduzione è metempsicosi’. … Il fatto è che … noi non abbiamo sempre e non abbiamo spesso la veste da offrire allo scrittore antico di prosa o di poesia: almeno non l’abbiamo lì pronta; almeno almeno non la sappiamo lì per lì scegliere. E poi … è giusta (almeno per questo proposito del tradurre) la distinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutando corpo, si muta anche anima. Si tratta, dunque, non di conservare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma di deformargliela meno che sia possibile … Dobbiamo, insomma, osservare, traducendo, la stessa proporzione che è nel testo, del pensiero con la forma, dell’anima col corpo, del di dentro col di fuori…. »

«… C’è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero dice. E così va bene, e questa è utile arte, necessaria per chi non sa la lingua che lo straniero parla e l’interprete sa. E di queste interpretazioni è buono se ne facciano in iscritto e a voce, specialmente a voce; e si usi pur la lingua più intelligibile, nel quarto d’ora o di secolo, ai più, e sia questa quant’ella voglia essere, sciatta e scinta. Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua, deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli ora i riboboli nel parlar della plebe. Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelle loro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece che vivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano ai corpi perfettamente; le ombre come degli eroi così dei poeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi, quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere a Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori, e a Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Cicerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Tacito i suoi colori poetici di scrittore schivo del vulgo. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a ritmo.»