La versione pubblicata del testo è stata lievemente modificata nella struttura per esigenze grafiche e redazionali: quella che presento qui è la mia prima stesura originale.
«Nella mente di Charles Darwin» parla degli errori, della presunzione e della fatica – un vero e proprio lavoro di scavo – di chi traduce; e parla anche di segreti destinati a rimanere tali, per quanti sforzi noi si faccia nel tentativo di portarli alla luce…
Nel corso degli ultimi tre anni ho avuto il privilegio di confrontarmi, in veste di traduttrice, con alcuni scritti1 di Charles R. Darwin: in parte si è trattato di materiali inediti, in parte di testi già noti al pubblico italiano grazie a traduzioni precedenti. Entrambi gli scenari, unitamente alla peculiarità dei testi in questione – scritti incompiuti, privati, informali, concettualmente ricchissimi – mi hanno imposto ricerche e riflessioni che proverò qui a ricostruire facendo qualche esempio.
Ho sempre pensato che fra la traduzione di un testo e l’interpretazione di un brano musicale o di un’opera di teatro esistano somiglianze importanti, almeno in linea di principio. A musicisti e attori ho sempre invidiato il carattere provvisorio che generalmente viene riconosciuto alla loro lettura delle opere originali: una provvisorietà che spesso pare negata, invece, al lavoro di traduzione. È frequente, infatti, che un libro sia tradotto un’unica volta e che dopo un certo numero di anni non si senta più il bisogno di ripubblicarlo.
I lettori conoscono quindi molti testi nell’interpretazione di una voce sola (un unico traduttore) con l’inevitabile quanto impropria conseguenza che quell’unica traduzione diviene «la» traduzione di quell’opera. In qualche modo, questa situazione (che non è necessariamente legata al processo traduttivo in sé, ma piuttosto alle caratteristiche del mercato editoriale) si ripercuote, per noi traduttori, sul modo in cui «viviamo» il nostro lavoro. Offriamo al pubblico la nostra «lettura» dell’opera con la scomoda consapevolezza che la nostra versione sarà l’unica: la prima e l’ultima.
La traduzione di un classico, di un testo che durerà più di noi e della nostra traduzione, insieme a tutta la responsabilità che ovviamente comporta, restituisce a chi traduce la stimolante (e corretta) dimensione provvisoria del suo ruolo di interprete: può darsi che la sua traduzione sia la prima (nel caso di un inedito) ma di certo non sarà l’ultima. Soprattutto, non sarà l’unica. Non un monologo, quindi, ma un dialogo, uno scambio dialettico fra molte voci.
La possibilità di essere solo una delle molte voci italiane di un testo restituisce dunque in un sol colpo, al lavoro del tradurre, tutta la sua piena dimensione creativa (l’interpretazione) accostandolo in qualche modo anche all’impresa scientifica: un’avventura intellettuale possibile grazie al contributo di molti; nessun traguardo assoluto, infinite tappe intermedie, molte false partenze, ripensamenti e ogni tanto – con il contagocce – un vero passo avanti. Sono felice che per me, traduttrice biologa, tutto questo si sia realizzato lavorando su Darwin.
Una scrittura incompiuta
Un aspetto di questi testi darwiniani che ha reso la mia esperienza di traduttrice del tutto particolare (qualcosa in cui non mi era ancora capitato di imbattermi) è la loro scrittura incompiuta. L’assunto che tutti noi traduttori compiamo nell’accostarci a un testo, e cioè l’idea di poter visitare la mente di un altro essere umano cogliendone il pensiero e traghettandone l’espressione da una lingua all’altra2, diventa – se possibile – ancora più scandalosamente presuntuoso quando si lavora su un’opera incompiuta. Nel caso particolare dei Taccuini, poi, l’incompiutezza non dipende da una brusca interruzione della loro stesura: questi testi sono incompiuti perché così nacquero nella mente di Darwin, che non li scrisse pensando a un lettore, ma li intendeva esclusivamente quale sostegno alla memoria e alle sue riflessioni. Questi testi non rispettano alcuna convenzione sociale della comunicazione, sono annotazioni sparse, privatissime, di pensieri e idee che vanno lentamente aggregandosi, per acquistare forma e finalmente cristallizzare nella «sua» teoria. Un’opera pensata per il pubblico e rimasta incompiuta perché interrotta da cause diverse (per esempio l’abbandono del progetto o la morte) è più facile da interpretare – almeno così io credo – rispetto a un testo mai concepito dall’autore per occhi diversi dai propri:
Giacché la natura di questi appunti è privata, e per suo uso esclusivo, Darwin non si dà alcuna pena di curare sintassi, grammatica e ortografia; libero dalle convenienze e incurante di tutti gli aspetti sociali della scrittura salta con disinvoltura da un tema all’altro senza alcuna sistematicità spesso omettendo nessi logici che per noi sarebbero stati preziosi (per lui, l’essenziale era poter rintracciare il filo dei propri pensieri rileggendosi a distanza: in altre parole, a buon diritto, non aveva messo in conto noi). … È una mente che pensa in diretta; e trattandosi di una delle menti più grandi nella storia della nostra civiltà, è bellissimo starla a guardare mentre lavora.3
L’errore in agguato: l’insidia della familiarità
Mi è occorso un certo tempo per prendere dimestichezza con le caratteristiche di questa scrittura così criptica, in particolare con la punteggiatura caotica, che spesso non soccorre segnalando i rapporti logici all’interno dei periodi. In molti casi, nei Taccuini, la mia prima difficoltà è stata quella di stabilire dove iniziassero e dove finissero le frasi, vista l’incoerenza nell’uso di punti e maiuscole.
A volte penso che i Taccuini (ma anche l’Abbozzo) siano ipertesti ante litteram, intralciati dal mezzo primitivo – carta e penna – di cui l’autore era costretto a servirsi: del resto anche il contenuto del nostro pensiero è un ipertesto, e i Taccuini sono, effettivamente, una trascrizione di pensieri in tempo reale. Mentre la mano di Darwin scriveva una frase, nella sua mente sfrecciava un nuovo pensiero, più o meno attinente, più o meno divagante, che era acciuffato al volo e subito inserito lì dove la penna si trovava (e non dove, logicamente, ci aspetteremmo di trovarlo nella frase corrente o fuori di essa). Prendere dimestichezza con questi pensieri stratificati, accavallati, intrecciati (e però capaci poi, tutt’a un tratto, di sfilarsi dal groviglio del rumore di fondo per emergere con chiarezza sorprendente, quando il lavorio mentale finalmente si faceva idea compiuta e quindi esprimibile) – è stata una fatica enorme, e ha richiesto molto tempo. Quando ho avuto la sensazione di riuscirmi a orientare nei labirinti di questa scrittura così implicita e criptica la mia presunzione è stata immediatamente ridimensionata dall’affiorare – complici alcune notevoli coincidenze – di un errore indotto dall’eccesso di sicurezza e dal conseguente abbassare la guardia (un’avventatezza che qualsiasi adulto di buon senso dovrebbe aver imparato a evitare …).
A mia discolpa posso dire che la permanenza nella convinzione erronea è stata molto breve; inoltre, l’errore sarebbe comunque venuto al pettine prima della pubblicazione, nel corso dei numerosi controlli cui sottopongo i miei testi. Malgrado ciò, non posso non trovare inquietante quel temporaneo abbandonarmi alla sicurezza di aver capito tutto, e quel temporaneo non sentir ragioni, non veder prove contrarie, ma soltanto conferme della mia idea: proprio un bell’esempio di visione a tunnel – pericoloso meccanismo che, quando sei convinto di qualcosa, ti fa interpretare come conferma anche la più palese prova contraria. Ecco dunque la frase:
Remember how soon Bakewell on the same principle altered cattle and Western, sheep,—carefully avoiding a cross (pigeons) with any breed.4
La mia buccia di banana è stata quella virgola subito dopo «Western». Ben sapendo – ormai avevo tradotto tutti i tre Taccuini – che la punteggiatura di Darwin è spesso a dir poco ingannevole (a volte, sebbene sempre fedelmente riportati nelle trascrizioni, i punti e le virgole sono semplici tracce lasciate dalla penna posata sul foglio, e non segni di punteggiatura intenzionali) – ho deciso che quella virgola fosse un incidente: insomma, ho deciso di non tenerne conto, vittima di quello che a posteriori definirei una sorta di terrorismo interpuntivo del mio Autore.5 Un controllo sulle traduzioni esistenti dell’opera smentiva recisamente la mia ipotesi. I traduttori che mi hanno preceduto6 davano quella virgola per buona: secondo loro, «Western» non era da intendersi aggettivo riferito a «sheep», ma si trattava piuttosto di un tal Mr. Western. Naturalmente, se non fossi stata presa da un fenomenale attacco di visione a tunnel, avrei tenuto in maggior considerazione l’opinione dei miei colleghi traduttori. Ma no: invece di controllare subito l’esistenza di questo Mr. Western (allevatore come il bravo e meno infido Mr. Bakewell) – verifica che avrebbe immediatamente risolto la questione – che faccio? Verifico l’esistenza di una «pecora occidentale» (Western sheep). La quale, neanche a farlo apposta – una cosa da non crederci, quasi una congiura – esiste: Ovis occidentalis. Sempre più sicura di me, vado oltre e mi lascio alle spalle le greggi del buon Bakewell; finisco di tradurre l’Abbozzo e passo alla Comunicazione del 1858, dove mi aspetta una sorpresa. Qui infatti Darwin riprende il pensiero accennato nel 1842 (e stavolta, nel presentarlo alla Linnean Society, pur ribadendo in una nota che il testo non era destinato alla pubblicazione, fa più attenzione alla forma, punteggiatura compresa):
Let this work of selection on the one hand, and death on the other, go on for a thousand generations, who will pretend to affirm that it would produce no effect, when we remember what, in a few years, Bakewell effected in cattle, and Western in sheep, by this identical principle of selection?7
Qui è chiaro, certo: altro che pecore occidentali, sono le pecore di Mr. Western! E infatti, sarebbe bastato solo crederci un po’, e andare a cercare chi fosse costui, per appurare che si trattava di Charles Callis Western, nato nel 1767 e morto nel 1844, uomo politico e allevatore di ovini.
Anche se non mi fossi imbattuta in questa seconda frase di Darwin, avrei sicuramente individuato il misunderstanding (insomma: l’errore) in fase di revisione e controllo; eppure tremo ancora pensando alla sicurezza con cui «sentivo» di aver capito il ragionamento di Darwin, considerandomi ormai esperta delle sue maiuscole imprevedibili e della sua punteggiatura così insidiosa, disseminata di finte virgole e micidiali trattini multiuso. L’eccesso di sicurezza, che ci fa sorvolare su dettagli importanti, è una delle cause d’errore più frequenti e – credo di poter generalizzare, qui – non solo nella traduzione. Nel lavoro traduttivo, l’istinto e l’intuito sono risorse inestimabili – ma non appena ci appoggiamo troppo ad essi, non appena ci fidiamo, ecco che svelano la loro seconda natura di trappole pericolose. Darwin, complice Mr. Western, me l’ha elegantemente dimostrato, e credo che non me lo scorderò più.
Idee senza parole (e accezioni abortive)
A parte le considerazioni precedenti, strettamente legate alla peculiarità della scrittura «privata» darwiniana nei Taccuini e nell’Abbozzo, la traduzione di questi testi ha comunque comportato problemi di terminologia molto particolari derivanti dalla necessità di rispettare la dimensione storica del testo.
In alcuni casi, per esempio, Darwin descrive concetti che noi conosciamo bene senza ricorrere ai termini oggi in uso. Si tratta di parole che appariranno molto tempo dopo; eppure, nelle pagine dell’Abbozzo (e in qualche caso anche nei Taccuini), i concetti sono già lì, ed è un’emozione scoprirli: idee bambine ancora senza un nome, aperte a tutte le prospettive del futuro. In tali situazioni dobbiamo attenerci a una traduzione che conservi il carattere dell’originale: linguisticamente ancora indefinito, a fronte di un’idea già ben chiara.
Una di queste «idee senza parole» è, per esempio, il concetto di nicchia ecologica. In un paio di passaggi dell’Abbozzo, Darwin usa la parola «station» per riferirsi alla posizione o alla collocazione di una specie nell’economia della natura. In inglese, «station … indica sia un luogo (posto, posizione, stazione), sia una condizione sociale (rango, ceto, posizione), sia un ruolo economico (occupazione, impiego, posto di lavoro) … Si può ravvisare, nell’uso che Darwin fa di station, un antecedente di niche, “nicchia”.»8 In inglese, d’altra parte, niche è attestato (nella sola accezione architettonica) dal 1611 ma solo nel Novecento assumerà, gradualmente, il significato biologico odierno.9 Nella mia traduzione dell’Abbozzo, quindi, ho utilizzato – a seconda degli aspetti semantici dominanti nel contesto particolare – traducenti come «posizione» o «collocazione»: parole che contengono i significati di station e conservano la stessa vaghezza di station rispetto a niche.
Un’altra idea che il lettore moderno immediatamente riconosce – pur non essendo, nei testi darwiniani da me tradotti, associata a un termine specifico – è quella che la biologia evoluzionista moderna finirà, dopo varie vicissitudini, per indicare con exaptation.10 Nell’Abbozzo, Darwin ricorda ancora una volta a se stesso i punti su cui far leva per dar forza alle proprie argomentazioni: «Sottolineare che la nostra teoria permetterebbe a un organo diventato abortivo rispetto al suo uso primario, di essere convertito a qualsiasi altro fine…»;11 il concetto sarà ripreso anche nell’Origine: «un organo formatosi originariamente con un dato scopo … può trasformarsi in un altro avente uno scopo del tutto diverso…».12
Uno degli elementi di grandissimo fascino di questi testi sta nel fatto che non si limitano a documentare la gestazione di quella che Darwin stesso chiamava «la mia teoria»: contengono anche, in nuce e ancora senza nome, molte idee fondamentali della biologia moderna.
Vi sono poi altri casi in cui Darwin utilizza alcuni termini in modo non del tutto scevro da ambiguità, lasciando sconcertato perfino il figlio Francis, suo primo editor: per esempio quando parla di mule [mulo]13 riferendosi in modo generico all’ibrido e insistendo sulla sua fecondità (evidentemente non riferendosi in particolare all’incrocio fra cavalla e asino, notoriamente sterile). Anche in italiano la parola mulo ha quest’accezione (significa cioè ibrido o, più marcatamente, bastardo, con una nota spregiativa se riferito a un essere umano). D’altra parte, tale accezione – presente nell’italiano antico e attestata già in Dante14 – è assai rara se non del tutto assente nell’italiano contemporaneo: insomma, potremmo chiamarla, alla maniera darwiniana, un’accezione abortiva.
Archeologia delle relazioni
Ho trovato particolarmente intrigante tradurre le lettere di Darwin incluse nella recente pubblicazione per i tipi di Einaudi. A differenza dei Taccuini e dell’Abbozzo, questi sono testi compiuti con una funzione sociale precisa; tuttavia, sono scritti rivolgendosi a un unico interlocutore con cui spesso l’autore aveva una certa familiarità. Si tratta dunque anche in questo caso di una scrittura assai poco sorvegliata; il testo in se stesso non presenta tuttavia problemi insormontabili. Le difficoltà traduttive stanno nel fatto che la comprensione di una lettera, fuori dal contesto, è difficile come il tentativo di decifrare la trascrizione di un’intercettazione telefonica, o un dialogo ascoltato posando l’orecchio su una porta chiusa. Occorre indagare sulla relazione esistente fra lo scrivente e il destinatario della lettera nel momento preciso in cui fu scritto il messaggio; è necessario comprendere il grado di familiarità che caratterizzava quella relazione addentrandosi nella rete degli scambi precedenti e – nel caso di cui ci stiamo occupando – tenendo conto dei codici che regolavano le interazioni sociali nell’Inghilterra di metà Ottocento. Si tratta insomma di recuperare dettagli biografici indispensabili per inquadrare il testo e riuscire a presentarlo in modo credibile al lettore italiano: il problema sta nel fatto che spesso quei dettagli sono eventi così marginali da esser tralasciati anche dalle biografie più accurate. La piccola antologia di lettere proposta da Einaudi, per esempio, «fotografa» la relazione fra Darwin e Hooker a stadi diversi del suo sviluppo: il rapporto ancora relativamente formale che si coglie nella missiva dell’11 gennaio 1844 diventa assai più confidenziale in quella del settembre dello stesso anno per assumere i toni affettuosi dell’amicizia consolidata nel luglio del 1858.
Gli scambi epistolari con Wallace, poi, sono un vero e proprio distillato di abilità sociali e diplomazia, contenenti cruciali messaggi impliciti ben confezionati in esplicite cortesie fra gentlemen. Messaggi traducibili a patto che li si sappia collocare nelle complesse dinamiche sociali dell’Inghilterra vittoriana in genere e, più in particolare, nel delicatissimo scenario in cui si stava muovendo Darwin: il negoziato fra priorità scientifica e rispettabilità, quest’ultima intesa come integrità morale e non come farisaica imbiancatura di comportamenti cui Darwin non era disposto ad abbassarsi (in nessun caso, neanche di fronte all’alternativa del sacrificio di sé o del suo lavoro di scienziato, che nel suo caso era la stessa cosa.15)
Ulteriore complessità è data poi, in questi testi, dall’intrecciarsi di argomenti scientifici e di temi personali, anche di grande tensione drammatica, trattati peraltro con pudore e sorprendente semplicità. Fra questi, la preoccupazione per la malattia del figlioletto, confidata a Lyell il 26 giugno 1858 («Il piccolo ha la febbre alta, ma speriamo non sia scarlattina»16), preoccupazione relegata in un post scriptum insieme ai saluti per Lady Lyell. Il piccolo Charles Waring si spegnerà due giorni dopo, contagiato dalla scarlattina. Questo bambino, ultimo figlio di Charles ed Emma, venuto al mondo quando la madre non era più giovane, aveva una forma di ritardo nello sviluppo fisico e mentale che non è mai stato possibile chiarire con sicurezza e che alcuni hanno voluto ricondurre alla sindrome di Down (all’epoca ancora non descritta). Le evidenti difficoltà del piccolo e la preoccupazione per il suo futuro erano, per i genitori, fonte di un’angoscia profonda, al punto che la tragica perdita del bambino fu al tempo stesso un terribile dolore ma anche – in qualche modo – un sollievo consolatorio. In una lettera del 29 giugno, Darwin confidò a Hooker d’aver provato un «provvidenziale sollievo» nel vedere il volto del piccolo finalmente sereno nel suo ultimo sonno.17 Meglio di qualsiasi discorso, queste parole – con la loro disarmante, sconvolgente onestà – ci svelano un Darwin umanissimo e allo stesso tempo un uomo che a dispetto della salute malferma sapeva trovare in se stesso una forza impressionante. Un uomo che a due settimane da quella perdita riuscì a scrivere a Lyell una lettera equilibrata, ironica e spiritosa.18
Abbiamo messo le mani e gli occhi sui suoi taccuini personali, per scoprire la genesi delle sue teorie. Qui, però, siamo davanti alle complessità inaccessibili dell’anima, e dobbiamo tirarci rispettosamente indietro. Con la traduzione di questi testi mi è parso di aver intrapreso uno scavo archelogico per portare alla luce tracce di pensieri, impronte di idee, frammenti di relazioni umane. Non posso fare a meno, a questo punto, di pensare alla metafora che lo stesso Darwin aveva mutuato da Lyell e che ritroviamo nell’Origine: come lui di fronte alla geologia, anch’io di fronte al suo universo ho avuto la sensazione di avere fra le mani «un volume del quale si è conservata solo qualche pagina sparsa, nelle quali sono leggibili solo poche righe prese a caso».19 Per quanto preziose siano le pagine conservate, non posso fare a meno di pensare a tutte quelle perdute, su cui non potremo mai posare gli occhi.
1 I testi da me tradotti ai quali faccio riferimento in questo articolo sono: Charles Darwin, Taccuini (1836-1844), Editori Laterza, Roma-Bari 2008 (nel quale sono raccolti il Taccuino Rosso, il Taccuino B e il Taccuino E); e Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, Einaudi, Torino 2009. L’edizione italiana di entrambi i volumi è stata curata da Telmo Pievani al quale va tutta la mia riconoscenza per avermi coinvolto in queste due imprese.
2 In realtà l’opera di mediazione non si svolge soltanto fra lingue diverse, ma fra luoghi, tempi e culture spesso reciprocamente lontani: si tratta dunque di un’operazione più profonda di una semplice trasposizione fra codici linguistici.
3 Charles Darwin, Taccuini (1836-1844), op. cit., «Nota del Traduttore», pp. x- xi
4 «Ricordare come, sulla base del medesimo principio, Bakewell alterò rapidamente i bovini e Western le pecore — evitando scrupolosamente l’incrocio con qualsiasi altra razza (piccioni)», in Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 14. Si noti quel «Ricordare», in cui Darwin raccomanda a se stesso i passaggi logici da seguire nella perorazione della sua teoria. Si noti pure la parentesi «(piccioni)» a prima vista decisamente spiazzante giacchè stiamo parlando di ovini e bovini: fulminea annotazione in cui l’autore accenna all’opportunità di citare l’esempio della selezione artificiale sui piccioni, in realtà più che pertinente al tema dei suoi appunti. Infine, si noti la posizione di quella parentesi: non alla fine della frase, come poi l’ho collocata io, ma esattamente nel punto in cui il pensiero («i piccioni!») dovette passargli per la testa.
5 Gadda descrisse l’uso casuale e improprio della punteggiatura che aveva riscontrato nei testi dei partecipanti a un concorso letterario con queste indimenticabili parole: «Una vaga disseminazione di virgole e di punti e virgole, buttati a caso, qua e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara». A proposito di Darwin io direi che disseminava il paesaggio dei suoi scritti non di capperi innocenti, ma di piccole cariche di esplosivo: ne aggiri cento, uscendone indenne, solo per saltare sulla numero centouno.
6 In particolare mi riferisco a Brunetto Chiarelli e a Mirella De Castro, che hanno tradotto l’Abbozzo rispettivamente per i tipi di Boringhieri (1960) e di Newton Compton (1994).
7 «Poniamo che questa opera di selezione da un lato, e la morte dall’altro, proseguano per un migliaio di generazioni; chi mai asserirà che essa non possa produrre alcun effetto, se solo ricordiamo quello che hanno realizzato in qualche anno Bakewell nei bovini e Western nelle pecore, applicando questo identico principio di selezione?» in Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 98.
8 Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 45 (nota).
9 Nel 1917 Joseph Grimmell utilizzò niche – il cui uso in senso figurato era già attestato dal 1725 – come sinonimo di habitat; nel 1927 Charles Sutherland Elton intese con niche la posizione occupata da una specie in una rete trofica; nel 1958, finalmente, George Evelyn Hutchinson attribuì a niche il significato di spazio multidimensionale delle risorse disponibili per una specie e da essa utilizzate.
10 Il legame fra l’idea di cooptazione e il termine exaptation si deve a Steven Jay Gould e a Elizabeth S. Vrba e risale al 1982 [Exaptation — a missing term in the science of form, Paleobiology 8(1): 4-15]. In precedenza il concetto era stato indicato con il termine più ambiguo di preadaptation.
11 Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 59.
12 Charles Darwin, L’origine delle specie, trad,. it. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 2004, p. 179
13 «Gli ibridi non sono affatto mostruosi, ma anzi perfetti … e dunque anche il mulo s’è riprodotto» Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 16. Si veda anche, alla stessa pagina, la nota 20.
14 Dante, Inferno [XXIV, 124-126].
15 «Essere in tal modo costretto a perdere la mia priorità di molti anni mi sembra duro, ma non riesco assolutamente a sentirmi sicuro che questo modifichi ciò che è giusto in questo caso … ho pensato che … sarebbe disonorevole pubblicare», in Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 83.
16 Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 84.
17 Lettera di Darwin a Hooker, 29 giugno 1858. Vi si legge fra l’altro: «… Prego Dio che non abbia sofferto come sembrava. È peggiorato improvvisamente. Era scarlattina. … Grazie a Dio non soffrirà più in questo mondo.»
18 Lettera di Darwin a Lyell, 13 luglio 1858, Charles Darwin, L’origine delle specie: Abbozzo del 1842, Lettere 1844-1858, Comunicazione del 1858, op. cit. p. 85-87.
19 Charles Darwin, L’origine delle specie, trad. it. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 2004, p. 293.